La riforma universitaria… 2 righe…

Il processo riformatore a livello continentale noto come processo di Bologna, iniziato con la convenzione di Lisbona del 1997 e consolidato con la dichiarazione di Bologna del 1999, è finalizzato ad armonizzare i sistemi di istruzione universitaria a livello europeo al fine di promuovere la libera circolazione dei titoli attraverso la comparabilità e il mutuo riconoscimento. In Italia però parallelamente si sviluppava, da anni, un dibattito sulla riforma del sistema universitario evidenziando il problema dell’eccessiva durata di fatto dei percorsi di studio: da un lato i corsi di laurea, originariamente tutti di durata quadriennale, furono estesi per alcune discipline a cinque anni (Medicina sei), dall’altro la durata legale del corso era puramente teorica poiché la quasi totalità degli studenti finiva fuoricorso, tanto che laurearsi in Giurisprudenza in 8-10 anni era considerato normale. Se a questo si aggiungeva il fatto che in Italia la scuola dell’obbligo inizia a 6 anni e non 5 e il percorso complessivo per arrivare all’università, tra scuola obbligatoria e non, dura 13 anni, mentre in quasi tutto il resto d’Europa 12, noi italiani non potevamo essere di certo competitivi con altri nostri colleghi europei sul mercato del lavoro continentale. Anche il numero di abbandoni da noi era abnorme, dovuto al fatto che gli studenti non vedevano mai il traguardo, quindi spesso persone con formazione universitaria interrotta si ritrovavano ad accontentarsi sulla soglia dei trent’anni di lavori che avrebbero potuto iniziare dieci anni prima. Un altro problema evidenziato era l’eccessivo centralismo del sistema universitario, eterodiretto a livello ministeriale e con scarsissima autonomia dei singoli atenei nel progettare l’offerta formativa.
Insomma, lo scopo della riforma promossa a livello continentale sotto l’egida del Consiglio d’Europa (che, per la cronaca, non c’entra niente con l’Unione europea) era ben diverso dall’esigenza fortemente avvertita a livello interno, esigenza resa più impellente dal sostanziale fallimento delle cosiddette lauree brevi, ufficialmente denominate diplomi universitari, di cui alla legge 341/1990.
Luigi Berlinguèr (che aveva anche dei disegni riformatori per la scuola che non furono mai attuati) insisteva col propugnare la riduzione della durata dei corsi di laurea a 3 anni, proposta che incontrava il favore di molti esponenti soprattutto del centro-sinistra dell’epoca. La promessa è che sarebbero stati 3 anni effettivi e non teorici, poiché un corso breve con un traguardo vicino indurrebbe a tenere duro e quindi preverrebbe gli abbandoni, e che il valore del titolo sarebbe stato lo stesso della vecchia laurea, poiché la laurea specialistica (in prima battutta la magistrale fu chiamata così) sarebbe servita solo per conseguire una «formazione di livello avanzato per l’esercizio di attività di elevata qualificazione in àmbiti specifici» (parole testuali del decreto MURST 509/1999). Così i nostri laureati avrebbero potuto competere ad armi (quasi) pari con i loro colleghi del resto d’Europa, anche grazie alle innovazioni date da una rinnovata autonomia. Quindi fu colta la palla al balzo: l’opportunità offerta dagli impegni assunti dall’Italia in sede internazionale costituì la spinta per riformare il sistema internamente. La riforma fu varata in fretta e furia perché potesse entrare in vigore in via sperimentale, solo per le sedi che ne facessero domanda e per alcuni corsi pilota, già nell’anno accademico 2000-2001, mentre l’anno dopo era a regime (fatta salva qualche isolatissima deroga, che non rappresentava neanche l’1% dell’offerta formativa). Si trattò di una riforma formlmente scollegata dal processo di Bologna: la convenzione di Lisbona sarebbe stata ratificata in Italia solo 5 anni più tardi (legge 148/2002) rispetto all’articolo 17, comma 95, della legge 127/1997, il quale, conferendo al dicastero competente il potere di disciplinare gli ordinamenti didattici universitari in via amministrativa, aprì la strada al decreto MURST 509/1999 (ministro Tullio de Mauro). Ovviamente, al momento dell’entrata in vigore della convenzione di Lisbona la riforma oramai vigente era già compatibile con essa e quando finalmente si era perfezionata la creazione dell’Area europea dell’istruzione superiore l’Italia era già alla riforma bis (decreto MIUR 270/2004, ministro Letizia Brichetto Arnaboldi detta Moratti; i decreti delle classi della riforma De Mauro erano stati varati da Ortenzio Zecchino e quelli delle classi della riforma Moratti da Fabio Mussi, quindi possiamo parlare di riforma bipartisan). Giusto per rendere un’idea, quando, nel’anno accademico 2006-2007, da noi entrava in vigore questa riforma della riforma, circa la metà dei 29 stati originariamente firmatari non aveva ancora avviato alcuna riforma e gli altri avevano introdotto la riforma in via sperimentale in parallelo con il vecchio sistema.

I motivi che indussero il legislatore italiano a procedere in quel modo così frenetico e addirittura prima che si delineasse il quadro del processo di Bologna sono presto detti: servivano risultati immediati (e non tanto per ragioni elettoralistiche visto che, come detto sopra, erano d’accordo tutti; piuttosto, per mostrare all’Ue che eravamo in grado di allinearci al numero dei laureati che avevano gli altri). E per ottenerli fu scelto di fissare la durata del primo ciclo (inizialmente chiamato livello e poi corretto in corso d’opera) in 3 anni, benché già si sapesse all’epoca che gli accordi internazionali non avrebbero previsto, per ciascun ciclo, una durata fissa, ma solo una durata minima, con scopi, obiettivi e risultati attesi.
Ecco perché in moltissimi stati europei il primo ciclo dura 4 anni e nel secondo ciclo c’è un unico master (non due come da noi) con durata del corso solitamente di 2 o 3 semestri (cioè un anno o un anno e mezzo). In molti stati in cui esistevano un unico titolo oppure due titoli, cioè i nostri laurea e dottorato, semplicemente ci hanno ficcato in mezzo il master, senza ridurre la durata del primo ciclo (che precedentemente copriva anche il secondo). Così è stato molto più facile recepire il cambiamento anche a livello sociale (così come quando in Italia fu introdotto il dottorato di ricerca, negli anni ’80 del secolo scorso, nessuno si sognò di dire che la vecchia laurea valesse come un dottorato oppure ne fosse comprensiva).

Inizialmente la riforma sembrò un successo: per effetto dei transiti dal vecchio al nuovo ordinamento, fortemente incentivati dagli atenei, ci fu un boom di laureati. La possibilità di valutare anche esami oggetto di decadenza o rinuncia riesumò carriere storiche interrotte da tempi immemorabili. A ogni annualità maturata con il vecchio ordinamento era possibile attribuire un numero indeterminato di crediti e quindi con la conversione quasi tutti gli atenei convalidavano almeno due esami dei nuovi corsi per un esame annuale del vecchio. A Bologna vedevo cose veramente inconcepibili, tipo esami dell’ordinamento previgente in Storia dello spettacolo “convertiti” in Storia contemporanea + Storia del teatro; l’inesistenza dei settori scientifico-disciplinari nel vecchio ordinamento (esistevano ma valevano solo ai fini dell’incardinamento dei docenti, senza alcun riflesso sugli ordinamenti didattici) consentiva di fare qualsiasi cosa. In questa sorta di rinascimento per il nostro sistema universitario c’è chi vedeva del marcio. Potrei isolare i seguenti elementi:
1. i giornali parlavano di «riforma del 3+2» (attribuendola sovente a chiunque – compresa l’Unione europea, che non c’entrava niente – tranne a chi l’aveva effettivamente fatta) e di «laurea di primo livello e laurea di secondo livello» (pensate che con la riforma del 2004 cominciarono a parlare di «sistema a Y», una cosa completamente inventata).
2. ben presto i laureati del vecchio ordinamento laureatisi in un battibaleno mediante passaggio al nuovo si esaurirono. Loro effettivamente riuscirono a spendere le loro lauree come quelle vecchie, per due motivi: nel settore pubblico e in quello regolamentato mancavano completamente norme che distinguessero tra i due ordinamenti, mentre nel privato il nuovo sistema era pressoché sconosciuto e capirete che gente che all’epoca aveva dai 25 anni se diceva di essere laureata non si sarebbe mai sentita chiedere dall’interlocutore se si trattasse della laurea vecchia o di quella nuova.
3. la diffusione incontrollata delle nuove lauree, che venivano apparentemente rilasciate con molta più facilità di prima, specie al Nord (le università più meridionali si mostrarono maggiormente conservatrici e impedirono di fatto l’opzione per il nuovo ordinamento in quanto non attivarono sin da subito tutti e tre gli anni dei nuovi corsi), alimentò leggende, radicando nell’immaginario collettivo un pregiudizio fortemente negativo, che si aggiungeva al solito scetticismo degli italiani per i cambiamenti.
4. a quanto sopra si aggiunse una fortissima resistenza da parte di studenti del vecchio ordinamento: rimase uno zoccolo duro che si rifiutava categoricamente di passare al nuovo perché riteneva la propria futura laurea “superiore”, anche se giuridicamente identica alla nuova. Costoro sono stati i più favoriti perché le università per toglierseli di torno hanno cominciato a far sostenere loro esamini da 3-5 crediti del nuovo ordinamento verbalizzandoglieli come annuali del vecchio, a farli laureare con «elaborati a modello differenziato» che definire “tesine” sarebbe un complimento etc. etc.. E sono quelli che poi successivamente hanno accampato le maggiori pretese.
5. il folle progetto “Laureare l’esperienza”, con il quale sono state rilasciate migliaia di lauree a poliziotti, militari, funzionari e dirigenti non laureati divenuti tali per carriera quando si poteva fare, giornalsiti, geometri, periti vari, agrotecnici e compagnia cantante con pochissimi esami o addirittura senza, fece il resto, facendo perdere di credibilità tutto il sistema. Fu proprio tale progetto che ha via via condotto, attraverso graduali interventi restrittivi, al tetto attuale di crediti riconoscibili per abilità/competenze, ridotto a soli 12 (praticamente un esame annuale), con l’esclusione di convenzioni generalizzate e criteri standardizzati e con l’estensione ai meriti sportivi (peraltro esistono altre strade per continuare a regalare lauree a militari: ad esempio, per gli ufficiali dell’Esercito, non è mai stato abrogato e dunque è ancora vigente il d.lgs. 464/1997; tra l’altro in virtù di questa norma alcuni atenei, come l’UniTo, continuano imperterriti a rilasciare la vecchia laurea in Scienze strategiche secondo l’ordinamento del 1998, cioè vetero-ordinamentale, 4 anni).
6. nel frattempo siera già alzata una levata di scudi da parte degli ordini professionali che condusse a una prima riforma, emanata con DPR 328/2000, che ha delineato il quadro attuale, tale per cui siamo l’unico stato in Europa a distinguere tra professionisti iuniores e seniores nei rispettivi ordinamenti professionali.
7. dulcis in fundo, al solo fine di preservare la posizione e i diritti acquisiti dei vecchi laureati sono stati emanati, nel 2009, regolamenti che equiparano, ai soli fini dell’accesso ai pubblici concorsi, le vecchie lauree alle lauree specialistiche e alle lauree magistrali. Non credo ci sia bisogno di specificare la distorsione che ha provocato la sistematica e dilagante falsa (oserei dire equivoca) applicazione di queste norme, la cui ratio è stata completamente travisata, tanto che può dirsi che i vecchi laureati si ritrovano in una posizione privilegiata e che tale posizione non incontra uguali in Europa.
8. nel frattempo la riforma ha mostrato il suo vero volto: tra coloro che si sono immatricolati direttamente con il nuovo ordinamento i tempi di conseguimento dei titoli si sono rapidamente stabilizzati con tassi di ritardo quasi analoghi a quelli dell’ordinamento previgente. Ben presto il numero di laureati è sceso nuovamente ai livelli di prima e a nulla sono valsi i trucchi statistici di usare il termine “laureati” per indicare il numero complessivo di lauree e lauree magistrali rilasciate anziché per indicare il numero di persone che hanno conseguito almeno un titolo accademico.
9. è conseguito da tutto quanto sopra ‒ ma in particolare dal punto 7, che ha costituito il colpo di grazia ‒ che l’80% dei laureati prosegue gli studi nel secondo ciclo, contro una media del 40% nello Spazio (ove il titolo di secondo ciclo svolge effettivamente il ruolo di preparare per l’applicazione di competenze avanzate in àmbiti specifici, ad esempio laddove ha valore abilitante a una professione o a una fuznione pubblica). Altra anomalia è che da noi quasi tutti proseguono subito dopo la laurea, mentre il master dovrebbe fungere da strumento di life long learning; peraltro la surrettizia, e non valida a livello internazionale, distinzione tra laurea magistrale e master marcherebbe quest’ultimo come uno strumento di LLL (la norma parla di «corsi di perfezionamento scientifico e di alta formazione permanente e ricorrente al termine dei quali sono rilasciati i master universitari i primo e di secondo livello») ma in realtà, al contrario, il master in Italia è visto come ponte per il mondo del lavoro.
10. in definitiva il valore concreto e fattuale della laurea magistrale, a dispetto del suo valore legale (questo sì coerente con le intenzioni del legislatore), si è sostanzialmente appiattito su quello della vecchia laurea, il che costituisce una beffa visto che per conseguire una laurea di adesso ci vuole solitamente lo stesso tempo addizionale che per conseguire una laurea di prima e grossomodo il numero degli esami è lo stesso (in sede di prima applicazione della riforma, con il decreto MURST 509/1999, gli esami erano molti di più: in un triennio si poteva arrivare a 30-35 contro i 19-25 dei corsi di laurea quadriennali e quinquennali del previgente ordinamento).

Iscriversi a un corso di laurea magistrale subito dopo la laurea non dovrebbe costituire la norma, ma l’eccezione.

Questo in virtù delle caratteristiche con il quale, sulla carta, è stato progettato il secondo ciclo, e le relative finalità.

Da tanto consegue che la laurea magistrale sarebbe una scelta matura, assunta anche in ragione della carriera lavorativa intrapresa dopo la laurea, dal che il conseguimento dei due titoli nello stesso o in atenei diversi dovrebbe essere abbastanza indifferente.

Nei fatti, un gran numero di studenti vede la magistrale come una scelta obbligata e la laurea solo una tappa per arrivare a quello che erroneamente percepiscono un unico titolo di un percorso unitario, o comunque un titolo che assorbe quello precedentemente conseguito. Basti pensare al fatto che nel gergo corrente, laddove viene definita «la triennale», viene sovente finanche negata la sua natura di laurea. Donde l’enormità di laureati che si riversa sui corsi di laurea magistrale (>80% secondo AlmaLaurea, con classi che sfiorano il 100%), che nella stragrande maggioranza dei casi non è un corso di laurea magistrale liberamente scelto, ma quello che all’interno della stessa sede in cui ci si è laureati si presume (in base a un’allucinazione collettiva e non perché normativamente sia così, anzi) essere la prosecuzione naturale, se non obbligata, della propria «triennale».

Gli atenei si sono adeguati a questo andazzo e pertanto quelli medi e piccoli hanno notevolmente contratto la propria offerta formativa, tanto che di solito all’interno della stessa struttura (facoltà, scuola o dipartimento) ciascuna laurea consente di accedere a un unico corso di laurea magistrale, che è quasi sempre la fotocopia sbiadita della laurea anzidetta, dopodiché in altre strutture della stessa università ci saranno sicuramente corsi di laurea magistrale cui si possa accedere con quella stessa laurea, ma la cosa non sarà particolarmente nota e l’eventuale scelta in tal senso sarà erroneamente interpretata come un cambiamento.

Personalmente ritengo l’ultimo descritto un approccio sbagliato, frutto di un equivoco collettivo sulla natura della riforma (che avrebbe potuto essere affrontato meglio dalla politica anziché assecondando la folle richiesta dei laureati del vecchio ordinamento di vedere il loro titolo equiparato alla laurea magistrale, equiparazione priva di senso dal momento che la laurea magistrale è per definizione una sorella minore della laurea), che sminuisce il valore percepito dei propri studi e pertanto l’efficacia del titolo (che dipende solo in parte dal valore legale).

L’approccio corretto sarebbe quello conforme agli intenti dichiarati della riforma, ma mi rendo conto che in un mercato ove quasi tutti conseguono la magistrale in successione alla laurea sarebbe altrettanto poco furbo, perché per propugnare un principio si finirebbe col danneggiare sé stessi risultando a valle meno competitivi, un po’ come quel tizio che per fare un dispetto alla moglie si evirò.

Ora, si consideri che, salvo il caso delle professioni regolamentate (e nemmeno tutte), non esiste praticamente attività o occupazione intrapresa dopo la laurea magistrale che non si possa svolgere anche con la laurea semplice. In molti casi il motivo per cui si comincia a lavorare dopo la laurea magistrale è pura e semplice ignoranza (dando per scontato che si debba conseguire la laurea magistrale perché i propri studi sarebbero incompleti, ut supra, si comincia a cercare lavoro solo dopo la laurea magistrale; questo per non parlare di quei pazzi che per mantenersi agli studi durante il corso di laurea magistrale fanno dei lavoretti a zero valore aggiunto come camerieri e simili, che stressano molto di più e rendono economicamente meno dei lavori qualificati cui potrebbero ambire con la laurea); in altri casi, quando l’ignoranza non è la propria, è del datore di lavoro, che chiede la laurea magistrale senza neanche sapere bene cosa sia (ma in linea di massima i datori di lavoro chiedono la laurea tout court; sono i deficienti degli aspiranti lavoratori che scrivono sul curriculum «laurea triennale» e si riferiscono alla laurea magistrale chiamandola semplicemente «laurea»).

Quindi in effetti conseguire una laurea magistrale “fotocopia” (vedi sopra) non fa altro che replicare le stesse opportunità offerte dalla laurea.
Pensiamo ad esempio al classico concorso per funzionario amministrativo in un ente publico: vanno bene laurea in Scienze politiche, Scienze dell’amministrazione, Scienze dei servizi giuridici, Scienze giuridiche OPPURE laurea magistarale in Scienze della politica, Scienze delle pubbliche amministrazioni, Giurisprudenza, Scienze giuridiche. Ne consegue che se io ho conseguito laurea in Scienze dell’amministrazione + laurea magistrale in Scienze delle pubbliche amministrazioni posso partecipare alla procedura al pari di chi ha una sola delle due. Stessa cosa potrei dire per i funzionari tecnici architetti/ingegneri, geologi, biologi, agronomi, esperti in scienze ambientali etc..
Nel privato, poi, a cuasa dell’ignoranza diffusa magistrale o vecchio ordinamento sono sinonimi di 5 anni.

Tutto quanto premesso e considerato, dunque, l’approccio più smart, a mio avviso, è conseguire laurea e laurea magistrale in àmbiti disciplinari differenti e possibilmente in differenti atenei, al fine di farli apparire chiaramente sul curriculum come titoli differenti (e non uno il secondo il completamento del primo).

 

Fonte: Cambiare università per magistrale – Università.com – il forum degli universitari (xn--universit-y1a.com)

Autore: https://www.università.com/member/1756-dottore

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